Diffamare una persona su Facebook può portare a conseguenze pesanti in quanto l’aggravante prevista per le offese arrecate, attraverso il più noto dei social network, è la stessa prevista per la diffamazione a mezzo stampa.
Lo ha statuito la V sezione penale della Cassazione con la sentenza n.8328/16 depositata il 1° marzo 2016, rigettando il ricorso di colui che aveva offeso la reputazione di Francesco Rocca, presidente nazionale della Croce Rossa Italiana, attraverso i diversi messaggi offensivi.
La Suprema Corte, ha spiegato in sentenza che “anche la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca Facebook integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’articolo 595 , comma terzo, del Codice penale, poiché la diffusione di un messaggio con le modalità consentite dall’utilizzo per questo di una bacheca Facebook ha potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, sia perché per comune esperienza, bacheche di tal natura racchiudono un numero apprezzabile di persone (senza le quali la bacheca Facebook non avrebbe senso) sia perché l’utilizzo di Facebook integra una delle modalità attraverso le quali gruppi di soggetti socializzano le rispettive esperienze di vita, valorizzando in primo luogo il rapporto interpersonale, che proprio per il mezzo utilizzato assume il profilo del rapporto interpersonale allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione”.
Già in passato la Corte, si era pronunciata su un caso analogo ritenendo configurata la fattispecie aggravata della diffamazione a mezzo stampa di cui all’art. 595, comma 3 c.p. in presenza di un commento inserito sulla bacheca di un social network, considerata la potenziale propalazione della notizia ad una cerchia indeterminata di soggetti (Cass. Pen., sent. n. 24431/2015).
Alla luce dei suddetti orientamenti giurisprudenziali, appare quindi opportuno consigliare estrema cautela allorquando ci si accinge ad esternare le proprie opinioni sulla rete: le stesse devono essere contenute nei limiti della liceità, altrimenti si rischia un condanna penale e il dover risarcire il danno all’offeso.
Giova anche rappresentare che il reato di diffamazione si configura considerando l’informazione divulgata nel suo complesso, rappresentato dal testo, dai commenti, dal titoli e da ogni altro elemento utile a tale valutazione ( Cass. pen., Sez. V, sent. 5/11/2004).
Il delitto in questione, difatti, può integrarsi non solo se la sfera morale altrui sia lesa con modalità direttamente lesive ed aggressive della reputazione, ma anche con modalità che, oggettivamente non lesive, tali diventino per le forme con cui vengono estrinsecate (C., Sez. I, 12.3.1985).
Possono quindi integrare il delitto di diffamazione anche offese indirette (C., Sez. VI, 5.2.1980; T. Trento-Cles 24.12.2001), secondo cui l’intento diffamatorio può essere raggiunto anche con mezzi indiretti, subdole allusioni, espressioni insinuanti e formulazioni allusive, suscitando il dubbio sulla condotta dell’infamato ed è da considerarsi diffamatorio l’addebito che sia espresso in forma tale da suscitare il semplice dubbio sulla condotta disonorevole. Hanno la capacità, perciò, rivelarsi offensive anche le espressioni, apparentemente non diffamatorie, le quali abbiano in realtà un contenuto allusivo, percepibile dal lettore medio, che le rende tali (C., Sez. V, 15.7.2008; C., Sez. V, 18.5.1999; C. civ., Sez. III, 13.1.2009).
Integra il reato di diffamazione non solo la falsa attribuzione di un fatto giuridicamente illecito ma anche la divulgazione di fatti che, seppur leciti, sono idonei ad incontrare la disapprovazione da parte della generalità dei consociati, ponendosi in contrasto con norme etiche universalmente riconosciute (C., Sez. V, 3.9.2008).
la Suprema Corte ha affermato come sia sufficiente il dolo generico, consistente nella volontà cosciente e libera di propagare notizie e commenti con la consapevolezza della loro attitudine a ledere altrui reputazione ( C., Sez. V, 12.12.2012-29.1.2013, n. 4364; C., Sez. V, 28.11.1997, per la quale non può essere esclusa la responsabilità dell’imputato in base ad un’asserita “buona fede” non rilevante nel reato in esame, il cui elemento psicologico è il dolo generico; C., Sez. V, 7.8.1996; C., Sez. VI, 31.8.1992; C., Sez. V, 15.10.1987; C., Sez. V, 18.11.1986; C., Sez. V, 17.4.1985, laddove si sottolinea, tra il resto, la totale indifferenza delle finalità e dei moventi dell’azione; C., Sez. V, 12.3.1984; C., Sez. V, 23.1.1984). la Suprema Corte ha, ancora, stabilito che, pur essendo sufficiente il dolo generico, allorquando il carattere diffamatorio delle espressioni rivolte assuma una consistenza diffamatoria intrinseca non è necessaria alcuna particolare indagine sulla presenza o meno dell’elemento psicologico ( dolus in re ipsa ) (C., Sez. V, 18.5.2000; C., Sez. V, 11.4.2000; C., Sez. V, 16.12.1997). Si è altresì, sottolineato come, ai fini della configurabilità del delitto de quo, sia sufficiente il dolo eventuale, poiché basta che l’agente, consapevolmente, faccia uso di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive, cioè adoperate in base al significato che esse vengono oggettivamente ad assumere, senza un diretto riferimento alle intenzioni dell’agente (C., Sez. V, 16.10.2013-21.2.2014, n. 8419; C., Sez. V, 11.5.1999).
Con queste premesse è quindi opportuno contare fino a dieci prima di cliccare su tasto “pubblica” di Facebook.
Avvocato Giovanni Bartoletti